Canne al vento – Grazia Deledda

Canne al vento – Grazia Deledda

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sperare, sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo. 

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Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna? 

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sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. 

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l’ammattadore , folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio. Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas , piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa , vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude. Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi. 

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Dal tetto a cono, di canne e giunchi, che copriva i muri a secco e aveva un foro nel mezzo per l’uscita del fumo, pendevano grappoli di cipolle e mazzi d’erbe secche, croci di palma e rami d’ulivo benedetto, un cero dipinto, una falce contro i vampiri e un sacchetto di orzo contro le panas : ad ogni soffio tutto tremava e i fili dei ragni lucevano alla luna. Giù per terra la brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola capovolta le dormiva accanto. 

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ma la voce del ragazzo ronzava nel buio e gli sembrava la voce stessa degli spiriti del passato. 

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Ma passa il vento della disgrazia e la gente si disperde, come le nuvolette in cielo attorno alla luna quando soffia la tramontana. 

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Ogni tanto si fermava volgendosi a guardare il poderetto tutto verde fra le due muraglie di fichi d’India; e la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il che se ne allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo. 

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da una muraglia nera una finestra azzurra vuota come l’occhio stesso del passato guarda il panorama melanconico roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo come il pistillo nel fiore, i monticoli sopra i paesetti e in fondo la nuvola color malva e oro delle montagne Nuoresi. 

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Lunghe muriccie in rovina, casupole senza tetto, muri sgretolati, avanzi di cortili e di recinti, catapecchie intatte più melanconiche degli stessi ruderi fiancheggiano le strade in pendìo selciate al centro di grossi macigni; pietre vulcaniche sparse qua e là dappertutto danno l’idea che un cataclisma abbia distrutto l’antica città e disperso gli abitanti; qualche casa nuova sorge timida fra tanta desolazione, e pinte di melograni e di carrubi, gruppi di fichi d’India e palmizi danno una nota di poesia alla tristezza del luogo. 

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fiorivano piante di violacciocche e cespugli di gelsomini: uno di questi si arrampicava sul muro e vi si affacciava come per guardare cosa c’era di là, nel mondo. 

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così sedute le tre sorelle si rassomigliavano in modo straordinario; solo che rappresentavano tre età differenti: donna Noemi ancora giovane, donna Ester anziana e donna Ruth già vecchia, ma d’una vecchiaia forte, nobile, serena. 

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“Quando si è nobili si è nobili, donna Ruth. Trova lei una moneta sotterra? Le sembra di ferro perché è nera, ma se lei la pulisce vede che è oro… L’oro è sempre oro…” 

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“Tutto invecchia e tutto può rinnovarsi, come l’anno”, 

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Per quanto povera, una casa non deve esser mai abbandonata del tutto: altrimenti ci si installa il folletto. I vecchi rimangono, i giovani vanno!” 

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andata via la vecchia riprese il filo dei suoi pensieri. Riviveva talmente nel passato che il presente non la interessava quasi più. 

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Silenziosa, nera nel chiarore tra la finestruola e l’armadio, sembrava essa stessa una figura del passato, salita su dall’antico cimitero per visitare la casa abbandonata. 

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L’abbraccio di quell’uomo sconosciuto, arrivato non si sa da dove, dalle vie del mondo, le destava una vaga paura; ma ella sapeva bene i doveri dell’ospitalità e non poteva trascurarli. 

E perché durante la sua assenza il folletto non entrasse, lasciò il tizzone acceso sulla soglia della porta. 

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Non vedi che il tuo suono è come il vento? Fa scappar la gente.” 

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“Spiriti, topi e donne per me son la stessa cosa”, rispose Giacinto. 

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“Guarda tu l’acqua: perché dicono che è saggia? Perché prende la forma del vaso ove la si versa.” “Anche il vino, mi pare!” “Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l’acqua no.” “Anche l’acqua, se è messa sul fuoco a bollire”, disse Natòlia. 

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E su, e su, ad ogni scaglione si fermavano e si volgevano a contemplare l’opera del piccolo uomo, e lo straniero aveva curiosità infantili che divertivano il servo. “Il fiume si gonfia d’inverno?” “Cos’è questo?”, domandava tirando a sé qualche fronda di alberello. Non conosceva né le piante né le erbe; non sapeva che i fiumi straripano in primavera! 

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Ebbene, forse meglio così nella vita! Anche lui si volse supino e chiuse i pugni: attraverso i buchi del tetto oscillavan le stelle e il loro tremolio e l’incessante tremolio dei grilli parevano la stessa cosa. 

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“Piano, donne!”, disse don Predu. “C’è dentro le bisacce qualche cosa che si rompe a toccarla, come voi…” 

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“Loro? Sono come i santi di legno nelle chiese. Guardano, ma non vedono.

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Una mano misteriosa lo aveva spinto, ed egli sapeva che tutte le azioni compiute così, per forza sovrannaturale, sono azioni buone. 

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Le sembrava di sentire sulle labbra il sapore delle lagrime di lui – ed era il sapore di tutta la tristezza, di tutta la debolezza umana: allora la solita immagine di lui annoiato, spostato, avvilito, di lui contro cui non si poteva combattere perché dava l’impressione d’un masso precipitato dal monte a rovinar la casa, spariva per lasciar posto all’immagine di lui buono, pentito, appassionato. 

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La sua anima allora vibrava tutta di passione; un turbine di desiderio la investiva portando via tutti i suoi pensieri tristi come il vento che passa e spoglia l’albero di tutte le sue foglie morte. 

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Noemi ha il mio cuore, perché il cuore dei morti rimane ai vivi. 

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Ella li amava tutti e due, adesso, la donna perché col suo amore formava una parte stessa dell’uomo: che siano felici nella loro povertà e nel loro amore, nel loro viaggio verso una terra promessa. Ella li amava perché si sentiva in mezzo a loro, parte di loro, unita all’uomo per il suo amore, unita alla donna per il suo dolore. Li benediceva come una vecchia madre, ma si sentiva trasportata in mezzo a loro, attraverso la vita misteriosa, come Gesù fra i suoi genitori nella fuga in Egitto… 

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E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché, di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore. 

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La testa di donna Ruth si reclinò prima di qua, poi di là, poi tutto il suo corpo parve protendersi in avanti e curvarsi ad ascoltar 

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ma pareva avessero paura anche loro, paura di farsi sentire a vivere. 

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Egli la guardò coi suoi occhi indifferenti come quelli di un animale, 

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La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. 

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Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto s’era sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida ch’egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. 

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Dopo tutto, due donne sole non possono vivere. 

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gli parve di dimenticare qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e ci si domanda se si è provvisti di tutto. 

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Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l’altro per non portar via neppure la polvere della casa che abbandonava. 

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gli pareva di esser sempre vissuto così, sull’orlo d’una strada metà percorsa, metà da percorrere

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sul cielo bianco sopra la valle chiusa da colonne di rocce la luna pendeva come una lampada d’oro dalla volta d’un tempio: 

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Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera. 

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Eppure, rimasti soli, provarono entrambi un senso d’imbarazzo; la luce pareva un ostacolo fra di loro. Uscirono nel cortiletto, sedettero sullo scalino, e Giacinto tirò la porticina dietro di sé, come per impedire al lume e al fuoco di ascoltare; 

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Efix cercava le parole per trar fuori dal suo cuore il penoso segreto. Ah, gli sembrava talmente grande e pesante da non poterlo trarre intero: a brani, forse, sì, sanguinante. Si curvò su se stesso: scavava, silenzioso, tirava, tirava su, come un macigno da un pozzo. 

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stettero quasi tempia contro tempia, come ascoltando una voce di sotterra. 

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L’ometto lo guardava con rimprovero, ma non parlava, almeno in presenza di Efix. E questo non voleva, a sua volta, forzare la sorte, e pensava ch’era peccato cercare di opporsi ai voleri della provvidenza. Bisognava abbandonarsi a lei, come il seme al vento. Dio sa quello che si fa. 

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“Anche questi giorni scorsi è stato male: ma nessuno ci credeva. La gente non crede mai…” 

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Eppure si sentiva sollevato, come uno che dopo lungo errare in luoghi impervi ritrova la via smarrita, il punto donde è partito. 

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Il tempo era sempre nebbioso, e intorno alla chiesetta, bruna fra le pietre e le macchie della pianura era un silenzio infinito, un odore aspro di boschi. Il correre delle nuvole sul cielo grigio, dava al luogo un aspetto ancora più fantastico. 

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egli provava un vago senso di paura quando gli uomini forti e superbi, dalla cui bocca e dalle narici usciva un vapore di vita, gli passavano davanti: un senso di paura e di vergogna, e anche d’invidia. Quelli erano uomini; le loro mani sembravano artigli pronti ad afferrare la fortuna al suo passaggio. Parevano tutti banditi, esseri superiori alla legge: non si pentivano certo delle loro colpe, se ne avevano, non si tormentavano se si erano fatta giustizia da sé, nella vita. Gli pareva che lo guardassero con disdegno, buttandogli la moneta, che si vergognassero di lui come uomo e stessero per rimuoverlo col piede al loro passaggio, come uno straccio sporco. 

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“Ebbene, compagno mio, tutto succede per ordine del Signore: noi siamo strumenti ed Egli si serve di noi per provare il cuore degli uomini, come il contadino si serve della zappa per smuovere la terra e vedere se è feconda. 

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Camminavano, camminavano, non sapevano dove, non sapevano perché; i luoghi di spasso ove andavano erano per loro indifferenti, non più lieti né tristi delle solitudini ove facevano tappa per riposarsi o per mangiare. 

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non si era mosso, che aveva sentito un uomo piombargli addosso come un muro che crolla. 

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Tornare, condannarsi anche l’anima, ma non farle soffrire: questa era la vera penitenza. 

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Di festa in festa camminavano, o soli o in fila con altri mendicanti, come condannati diretti a un luogo di pena irraggiungibile. 

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Le feste si rassomigliavano: le principali erano di primavera e di autunno, e si svolgevano attorno alle chiesette campestri solitarie, sui monti, sugli altipiani, sull’orlo delle valli. Allora, nel luogo tutto l’anno deserto, nei campi incolti e selvaggi, era come una improvvisa fioritura, un irrompere di vita e di gioia. I colori vivi dei costumi paesani, il rosso di scarlatto, il giallo delle bende, il cremis ardente dei grembiali, brillavano come macchie di fiori tra il verde dei lentischi e l’avorio delle stoppie. E dappertutto si beveva, si cantava, si ballava, si rissava. 

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In settembre salirono sul Monte Gonare. Il tempo era di nuovo brutto, sconvolto da violenti temporali: rivoli d’acqua torbida solcavano le chine, sotto i boschi contorti dal vento, e tutto il monte sussultava per il rombo dei tuoni. Ma i fedeli accorrevano egualmente; salivano da tutti i sentieri tortuosi, da tutte le strade serpeggianti, affluendo alla chiesetta come il sangue che dalle vene va su al cuore. 

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ed erano tristi e lieti in pari tempo perché avevano tutto perduto e tutto salvato. 

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Le donne specialmente guardavano dall’alto dei cavalli, dalla cornice dei loro scialli, coi grandi occhi smarriti eppure a tratti scintillanti di gioia: qualche cosa le spaventava, qualche cosa le rallegrava, forse il loro stesso spavento. E gridi lontani risuonavano fra la nebbia come nitriti di cavalli selvaggi in corsa col vento. 

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Zuannantoni, seduto sotto il pergolato davanti alla capanna, suonava la fisarmonica; e tutto intorno il motivo monotono si spandeva come un velo di sonno sul luogo desolato. 

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Passò la notte nella capanna e siccome era venuto su un gran vento e le canne del ciglione gemevano come anime in pena, destando paura al piccolo guardiano, egli cominciò a raccontare le storie della Bibbia, imitando l’accento del cieco. 

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Fuori le canne dei ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia. All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite. 

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Io sono come il soldato ch’è stato in guerra: torno, ma non posso tenere queste vesti.” 

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Tutto era tranquillo e triste lassù; il Monte s’affacciava sopra la casa nera, sul cielo verdolino del crepuscolo, la luna nuova cadeva sopra il Monte, la stella della sera tremolava sopra la luna. 

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Possiamo anche diventar ricchi, zio Efix; chi lo sa? Tutto è possibile nel mondo: io credo che tutto sia possibile.” 

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Forse che donna Noemi e don Predu, con tutta la loro roba, sono più ricchi di noi? Di anni, sì, se vogliono, non di altro!” 

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Ecco, nella penombra glauca le cose stavano immobili al loro posto; il balcone, su, nero sul fondo grigio del muro, il pozzo coi fiori rossi, la corda sulla scala. 

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Efix mangiava e raccontava, con parole incerte, velate di menzogna timida; ma quando ebbe gettato le briciole e il fondo del bicchiere sul pavimento – poiché la terra vuole sempre la sua piccola parte del nutrimento dell’uomo – si drizzò un po’ sulla schiena e i suoi occhi si circondarono di rughe raggianti. 

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“siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.” “Sì, va bene: ma perché questa sorte?” “E il vento, perché? Dio solo lo sa.” “Sia fatta allora la sua volontà”, ella disse chinando la testa sul petto: 

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“Del resto è che non si è mai contenti. Lei sa la storia della Regina di Saba? Era bella e aveva un regno lontano, con tanti giardini di fichi e di melagrani e un palazzo tutto d’oro. Ebbene, sentì raccontare che il Re Salomone era più ricco di lei e perdette il sonno. L’invidia la rodeva; tanto che volle mettersi in viaggio, sebbene dovesse attraversare metà della terra, per andare a vedere…” 

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L’orgoglio, la passione, il desiderio di spezzare la sua vecchia vita miserabile, e coi frantumi ricostruirsene un’altra, nuova e forte, le ardevano negli occhi. 

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Il cielo è rosso, in alto sopra la collina bianca; passa il vento e le canne tremano e bisbigliano. 

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Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. 

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Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte; 

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Gli parve che un essere misterioso gli piombasse sopra, frugandogli le viscere con un coltello: e che tutto il sangue gli sgorgasse dal corpo lacerato, inondando la stuoia, bagnandogli i capelli, il viso, le mani. 

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E tutto era silenzio: i fantasmi s’erano ritirati dietro il velo dell’alba e anche l’acqua mormorava più lieve come per lasciar meglio risonare il passo di Efix giù per il sentiero; solo le foglie delle canne si movevano sopra il ciglione, dritte rigide come spade che s’arrotavano sul metallo del cielo. 

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“Davanti a Dio non ci sono ne servi ne padroni”, disse donna Ester; 

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“Come sono contento! Adesso posso morire”, pensava Efix sotto il panno; ma aveva come l’impressione di non potersene andare, di non poter uscire da quel cerchio di muri che lo serrava. 

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“È lunga, donna Ester mia! Abbiano pazienza”. “Che cosa è lunga, Efix?” “La strada… Non s’arriva mai!” Gli sembrava infatti di camminare sempre. Saliva un monte, attraversava una tanca ; ma arrivato al confine di questa ecco un altro monte, un’altra pianura; e in fondo il mare. Adesso però camminava tranquillo, e solo gli dispiaceva di non arrivar mai per sgombrare del suo corpo la casa delle sue padrone: ma un giorno, o una notte – non capiva più che tempo era – gli parve d’esser giunto al muricciuolo del poderetto, su in alto sul ciglione delle canne, e di sdraiarsi pesantemente sulle pietre. Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le foglie che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano, e una gli pungeva l’orecchio perché sentisse meglio: era un mormorio misterioso che ripeteva il sussurro dei fantasmi della valle, la voce del fiume, il salmodiare dei pellegrini, il palpito del Molino, il gemito della fisarmonica di Zuannantoni. Egli ascoltava, aggrappato bocconi al muricciuolo e da una parte vedeva la cucina delle sue padrone, dall’altra una distesa nebbiosa come lassù dal Monte Gonare. Donna Ester saliva dalla valle col viso coperto da un’ala nera; sollevava l’ala, mostrava il suo viso scuro, doloroso, gli occhi velati di pietà, ma si traeva indietro dal muricciuolo come per paura di cadere; ed ecco altre figure salivano, tutte col viso nascosto da un’ala nera, e tutte si avvicinavano ma si ritraevano subito spaurite, spaventate dal pericolo di precipitare al di là. Efix le riconosceva tutte, queste figure, le sentiva parlare, capiva che erano vive e reali; eppure aveva l’impressione di sognare: erano figure del sogno della vita. 

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“Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere…”, disse con un soffio. 

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in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero scoperti, rivolti come d’uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un’ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d’intraprendere il viaggio verso l’eternità.