Cronaca di una morte annunciata – Gabriel García Marquez

le numerose persone che incontrò da quando uscì di casa alle 6 e 05 fino a quando venne squartato come un maiale un’ora dopo lo ricordavano un po’ insonnolito ma di buonumore, e a tutti fece notare in modo casuale che era una bella giornata. Nessuno avrebbe giurato che alludesse alle condizioni del tempo. 

Lo vide dalla stessa amaca e nella stessa posizione in cui la trovai prostrata dalle ultime luci della vecchiaia, quando tornai in questo paese dimenticato per cercare di ricomporre con tante schegge sparse lo specchio rotto della memoria. 

A stento riusciva a distinguere le forme in piena luce, e teneva foglie medicinali sulle tempie per il mal di testa eterno che le aveva lasciato il figlio l’ultima volta che era passato per la sua camera. 

Mia sorella tornò a casa mordendosi il cuore per non piangere. 

«Ma fu come se già lo sapesse» mi disse. «Fu come sempre, che uno comincia a raccontarle qualcosa, e prima che il racconto arrivi a metà lei sa già come va a finire.» 

avrebbe potuto rispondere ugualmente qualsiasi altra cosa, perché aveva una maniera di parlare che gli serviva più per nascondere che non per dichiarare

Faceva parte della prematura leggenda secondo cui Bayardo San Román non solo era capace di fare ogni cosa, e di farla molto bene, ma disponeva anche di risorse inesauribili. 

«La gente gli vuole molto bene» mi diceva, «perché è onesto e di buon cuore, e domenica scorsa ha preso la comunione in ginocchio e ha servito la messa in latino.» In quel tempo non era permesso prendere la comunione in piedi e si officiava solo in latino, ma mia madre è solita addentrarsi in queste precisazioni superflue quando vuole arrivare al fondo delle cose. 

I fratelli erano stati allevati per essere uomini. Le sorelle erano state educate per essere mogli. 

“Sono perfette” le sentivo dire con frequenza. “Qualsiasi uomo sarà felice con loro, perché sono state allevate alla sofferenza.” 

Ángela Vicario s’azzardò appena a insinuare l’inconveniente della mancanza d’amore, ma sua madre lo demolì con una sola frase: “Anche l’amore s’impara.” 

Il vedovo de Xius morì un anno dopo. «Morì per quello» diceva il dottor Dionisio Iguarán. «Era più sano di noi, ma quando lo si auscultava gli si sentivano gorgogliare le lacrime dentro il cuore.» 

L’unico soprassalto imprevisto fu provocato dallo sposo la mattina delle nozze, perché andò a prendere Ángela Vicario con due ore di ritardo, e lei si era rifiutata di indossare l’abito da sposa finché non lo avesse visto in casa. «Figurati» mi disse, «sarei stata perfino contenta che non arrivasse, ma non che mi piantasse lì già vestita.» 

L’immagine più intensa che ho sempre conservato di quella domenica ingrata fu quella del vecchio Poncio Vicario seduto su uno sgabello al centro del patio. Lo avevano messo lì forse pensando che fosse il posto d’onore, e gli invitati inciampavano su di lui, lo confondevano con un altro, lo spostavano perché non disturbasse, e lui scuoteva la testa canuta con un’espressione erratica da cieco troppo recente, rispondendo a domande che non erano dirette a lui e restituendo saluti fugaci che nessuno gli rivolgeva, felice nel suo alone di oblio, con la camicia incartapecorita dall’amido e il bastone di guaiaco che gli avevano comprato per la festa. 

Il battello se ne andò con le luci accese e lasciandosi dietro una scia di valzer suonati alla pianola, e per un istante restammo alla deriva su un abisso d’incertezza, fino a quando tornammo a riconoscerci l’uno con l’altro e sprofondammo di nuovo nella macchia palustre della festa. 

«Aveva quel colore verde che hanno i sogni» 

“Dai, bella” le disse tremando di rabbia, “dicci chi è stato.” Lei indugiò appena il tempo necessario per pronunciare il nome. Lo cercò nelle tenebre, lo trovò a prima vista tra i tanti e tanti nomi confondibili di questo mondo e dell’altro, e lo lasciò inchiodato alla parete con la sua freccia precisa, come una farfalla senza più scampo la cui sentenza era scritta da sempre. “Santiago Nasar” disse. 

Erano esausti per la barbara fatica della morte, avevano i vestiti e le braccia inzuppati e il viso imbrattato di sudore e di sangue ancora vivo, ma il parroco ricordava la loro resa come un atto di grande dignità. 

«Sembravano due bambini» mi disse. E questa considerazione la spaventò, poiché aveva sempre pensato che solo i bambini sono capaci di tutto. 

Lei lo aveva intuito. Aveva la sicurezza che i fratelli Vicario non erano tanto impazienti di eseguire la sentenza quanto di trovare qualcuno che glielo impedisse. 

Pablo Vicario era di sei minuti più vecchio del fratello, ed era stato più estroso e risoluto fino all’adolescenza. Pedro Vicario mi era parso sempre più emotivo, e proprio per questo più autoritario. 

Ci insegnò molto di più di quello che avremmo dovuto imparare, ma c’insegnò soprattutto che nella vita non c’è luogo più triste di un letto vuoto. 

Fu lei la sua passione delirante, la sua maestra di lacrime a quindici anni, finché Ibrahim Nasar lo strappò dal suo letto a cinghiate e lo rinchiuse per più di un anno nel Divino Rostro. Da allora continuarono a sentirsi legati da un affetto serio, ma senza più il disordine dell’amore, e lei provava per lui tanto rispetto che non andò più a letto con nessuno se lui era presente. 

Santiago Nasar aveva un talento quasi magico per i travestimenti, e il suo divertimento preferito era quello di sconvolgere l’identità delle mulatte. Saccheggiava gli armadi delle une per travestire le altre, tanto che tutte finivano per sentirsi diverse da se stesse e uguali a quelle che non erano. 

Fino a quel momento non aveva piovuto. Anzi, la luna si trovava al centro del cielo, l’aria era diafana, e in fondo al burrone si scorgeva il rigagnolo di luce dei fuochi fatui del cimitero. 

Bayardo San Román l’aveva ricondotta a piedi a casa dei genitori perché il rumore del motore non denunciasse la sua disgrazia prima del tempo, ed era di nuovo solo e con le luci spente nella villa felice del vedovo de Xius. 

e spinsi la porta della camera da letto senza bussare. Le luci erano spente, ma appena entrai avvertii l’odore di donna tiepida e vidi gli occhi di leoparda insonne nell’oscurità, poi non tornai a saper nulla di me fin quando cominciarono a suonare le campane. 

Mangiare smodatamente fu sempre la sua unica maniera di piangere, e non l’avevo mai vista farlo con tanto dolore. 

D’improvviso sentii le dita ansiose che mi aprivano i bottoni della camicia, e sentii l’odore pericoloso della bestia d’amore distesa alle mie spalle, e sentii che mi faceva sprofondare nelle sabbie mobili della sua tenerezza. Ma si fermò di colpo, tossì già lontana e scivolò via dalla mia vita. 

Poi guardò di nuovo sua madre con il cuore a pezzi. Pura Vicario aveva finito di bere, si asciugò le labbra con la manica e le sorrise dal bancone con le lenti nuove. In quel sorriso, per la prima volta dalla nascita, Ángela Vicario la vide come in realtà era: una povera donna consacrata al culto dei propri difetti. Padrona per la prima volta del proprio destino, Ángela Vicario scoprì allora che l’odio e l’amore sono passioni reciproche. 

Si spaventò, perché sapeva che in quel momento lui la vedeva decaduta come lei vedeva lui, e non credeva che avesse dentro tanto amore quanto ne aveva lei per sopportarlo. 

Per anni non potemmo parlare d’altro. Il nostro comportamento quotidiano, governato fino a quel momento da tante consuetudini lineari, aveva cominciato a girare di colpo attorno a un medesimo affanno comune. I galli dell’alba ci sorprendevano mentre cercavamo di riordinare le numerose casualità incatenate che avevano reso possibile l’assurdo, ed era evidente che non lo facevamo per una semplice ansia di chiarire misteri, ma piuttosto perché nessuno di noi poteva continuare a vivere senza sapere con esattezza qual era il posto e la missione che ci aveva assegnato la fatalità. 

«Datemi un pregiudizio e solleverò il mondo». Sotto questa perifrasi di sconforto, con un tratto felice dello stesso inchiostro di sangue, disegnò un cuore attraversato da una freccia. Per lui, come per gli amici più prossimi di Santiago Nasar, lo stesso comportamento della vittima nelle ultime ore fu una prova schiacciante della sua innocenza. 

“non c’è ubriaco che sia capace di mangiarsi la propria cacca.”

Il giudice istruttore cercò almeno una persona che lo avesse visto, e lo fece con altrettanta insistenza di me, ma non fu possibile trovarla. Nel foglio 382 dell’istruttoria scrisse un’altra frase a margine con inchiostro rosso: «La fatalità ci rende invisibili». Il fatto è che Santiago Nasar entrò per la porta principale, visibile a tutti, e senza far nulla per non essere visto. 

Tutti lo videro uscire, e tutti capirono che già sapeva che lo avrebbero ammazzato, ed era così sconcertato che non trovava la strada di casa sua. 

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